C’era una volta, nei dintorni di Modena, un paesaggio da fiaba, popolato di castelli con torri e merli. Questo paesaggio c’è ancora oggi, i castelli sono rimasti e si sono riuniti nell’Unione Terre di Castelli che raccoglie Castelnuovo Rangone, Castelvetro di Modena, Guiglia, Marano sul Panaro, Savignano sul Panaro, Spilamberto, Vignola e Zocca. Siamo stati invitati all’inaugurazione dell’edizione 2013 del Poesia Festival (a cui partecipano oltre ai comuni delle Terre di Castelli anche Maranello e Castelfranco Emilia) e ci siamo riempiti occhi, pancia e cuore di tantissimo. Tantissimo cosa? Tantissimo tutto!
Il Modenese è una zona paesaggisticamente molto bella in cui dalla pianura si passa a una collina dolce. Le piccole cittadine curatissime sono fatte di casette basse e centri storici con edifici di mattoni. L’atmosfera è quella conviviale dell’Emilia fatta di sorrisi larghi e strette di mano vigorose davanti a un buon piatto di salumi e a un bicchiere di vino. Starete pensando che sto dipingendo una cartolina stereotipizzata. E invece l’aria che si respira è proprio questa, impregnata di collaborazione reciproca e di cura della cosa comune. E aggiungiamo la convivialità dell’accoglienza e la capacità di parlare di cibo mangiando o cucinando. Perché molto spesso chi racconta o cucina il cibo interpone una distanza tra il suo argomento e il pubblico. E in quei casi diventa difficile cogliere molti aspetti, che vanno ben al di là di quel che si gusta con il palato.
In questo post (lunghissimo e me ne scuso) ho deciso di focalizzarmi su quattro eccellenze del territorio che mi hanno particolarmente colpito tra le decine che abbiamo avuto modo di assaggiare e conoscere durante il nostro giro:
Cilegie: Vignola è famosissima per le sue coltivazioni di ciliegie, soprattutto i duroni, grandi e succulenti, che raggiungono i banchi dei nostri fruttivendoli di fiducia. Si tratta di come un prodotto stagionale che se lavorato – in versione candita o sotto spirito – può essere consumata tutto l’anno. Durante la visita alla Toschi abbiamo avuto modo di approfondire questo secondo aspetto.
Abbiamo scoperto anche una piccola ciliegia autoctona saporita e profumata, unica varietà tenerina del territorio e dalle proprietà organolettiche del tutto particolari: la moretta di Vignola. Purtroppo questo tipo di ciliegia, poco redditizio dal punto di vista produttivo e molto pericolosa da raccogliere vista l’altezza della piante, sta scomparendo. Il presidio Slow Food di Vignola e Valle del Panaro sta tentando di preservarla tramitre iniziative mirate. A non è stato possibile degustare la rara moretta all’Osteria della luna di Vignola dove ci è stata servita candita con la (deliziosa) ricotta del caseificio Rosola.
Torta Barozzi: di questa celebre torta avevamo già parlato qui e avevamo tentato di prepararla qui ma assaggiarla in loco, seduti al tavolo della storica Pasticceria Gollini, coccolati dalle proprietarie è stata tutta un’altra cosa. Finalmente ho capito che l’ingrediente che mancava alla ricetta preparata da me erano le arachidi. Ovviamente la proporzione degli ingredienti rimane avvolta nel mistero. Una sorpresa altrettanto gradita è stata la Torta Muratori a base di mandorle.
Borlenghi e ciacci: Inerpicarsi sull’Appennino fino a San Giacomo di Zocca per incontrare delle persone appassionate che ti raccontano mentre te li cucinano cosa siano i borlenghi e i ciacci. Ci è piacevolmente successo questo con i volontari del Museo del Castagno che sono riusciti a farmi passare quella perplessità che mi viene sempre quando visito i piccoli musei locali. In questo posto manca qualsiasi patina di polvere (e mi riferisco a una polvere emotiva, non fisica) e di attaccamento isterico alle tradizioni. Qui c’è entusiamo sincero e una cura dinamica dell’ambiente e delle tradizioni dell’Appennino Modenese. Non uscirete dal museo semplicemete sapendo tutto sul castagno e sulle castagne, alimento (povero) usato per secoli su queste montagne, ma avrete fatto una bella esperienza preparando i famigerati borlenghi e ciacci. Ma cosa sono?
Il ciaccio è una specie di piadina che può essere realizzata con un impasto di olio leggero, sale, acqua e farina bianca o di castagno. Cotto tra due cottole di ferro adeguatamente unte con del lardo il ciaccio bianco si condisce con la cùnza (un battuto di lardo, pancetta, aglio e rosmarino), salumi o formaggi teneri, mentre il caccio di castagno è ottimo con una ricotta freschissima e del miele di castagno.
Il borlengo è un cibo povero tipico della tradizione della Valle del Panaro, dagli ingredienti semplici e dalla preparazione conviviale. I tempi di preparazione (circa 7 minuti per ogni borlengo) e la necessità di consumarli caldi impongono che vengano mangiati lentamente mentre vengono preparati. Il borlengo diventa simbolo della comunicazione tra la gente e tra le diverse generazioni ma ha anche la funzione di raccontare il territorio dell’Appennino tra Modena e Bologna. Esiste una scuola di borlengai che si autodefinisce La slucadora, dal nome del macchinario usato per mondare le castagne, di cui fa parte Pippo che ci ha insegnato a fare la colla, un impasto molto liquido a base di acqua a cui vengono aggiunti gradualmente farina e sale lavorati con la frusta. La variante sta nelle uova: in pianura non si usano, in montagna sì. Una volta pronta la colla, dopo un riposo, meglio se in frigo, di 24-36 ore, la colla viene cotta sul sole, una pesantissima padella in rame stagnato unta preventivamente con una cotenna di maiale. Prima di versare la colla la temperatura del sole va testata lasciando cadere qualche goccia d’impasto, poi un paio di mestoli che vanno distribuiti sulla superficie del sole facendolo oscillare. Il vostro borlengo sarà cotto quando inzierà a staccarsi dal sole e riuscirete a girarlo fino a farlo imbnunire leggermente anche sull’altro lato. Quindi spalmare una metà del vostro croccantissimo borlengo con la cùnza fatta fondere sul fuoco e una buona manciata di parmigiano (qui chiamata forma) piegare in quattro rompendo delicatamente.
Bilancio della mia visita a La slucadora? 3 borlenghi, 1 ciaccio salato, 1 crescentina e 1 morso di ciaccio dolce!
Aceto Balsamico Tradizionale: se siete appassionati non potete saltare la visita al Museo del Balsamico Tradizionale di Spilamberto curato e gestito dalla relativa Consorteria.
Ma qual è il vero aceto balsamico tradizionale? Quello prodotto negli antichi domini estensi, da mosto d’uva cotto, maturato per lenta acetificazione derviata da naturale fermentazioen e progressiva concentrazione mediante lunghissimo invecchiamengto in serie di botticelle di legni diversi, senza alcuna sostanza aromatica aggiunta. Di colore bruno scuro, densamente sciropposo e dal profumo penetrante ma gradevole.
La produzione del balsamico è una questione familiare, tant’è che spesso si avvia una nuova batteri alla nascita di un figlio o si cede, in dote, ad una figlia che si sposa. Infatti si dice che non sia la batteria ad essere posseduta da qualcuno ma esattamente il contrario
Esistono tanti “balsamici” quanti sono i loro produttori: del tutto personale ed irripetibile è infatti il modo di cuocere il mosto, di ridurlo a fuoco diretto, di operare i rabbocchi ed i travasi, di effettuare i prelievi e di rispettare le esigenze delle botticelle, come del tutto diverse sono le condizioni ambientali dell’acetaia e la selezione dei microrganismi che in essa si produce nel tempo. Pertanto ogni “balsamico” presenta una propria impronta ed è riconoscibile o identificabile attraverso le proprietà comuni a tutti gli altri. Poco importa che il mosto provenga da uve bianche o rosse.
Per la commercializzazione esiste un unico contenitore autorizzato, la bottiglietta disegnata da Giugiaro della capienza di 100 ml. Diffidate delle imitazioni!
Nell’acetaia della Consorteria abbiamo avuto l’onore, oltre che di dare un’occhiata alle batteria dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura, di assaggiare del balsamico tradizionale invecchiato 12 anni e un altro invecchiato 20 anni, letteralmente commovente.
NON POTETE NON ANDARE A VEDERE…
Per gli appassionati di Medioevo i castelli che danno il nome territorio sono imperdibili, in particolare la rocca di Vignola e quella di Spilamberto. Sempre a Vignola, non perdetevi la straordinaria scala elicoidale progettata dal celebre architetto Jacopo Barozzi nel palazzo Boncompagni.
Non manca una giusta dose di storia del cinema nel recentemente inaugurato Museo Antonio Marmi, nel Teatro Ermanno Fabbri di Vignola. Una collezione accurata raccolta in una vita piena di amore per il cinema da Antonio Marmi
Vi segnalo che, anche se non siete appassionati di auto, dovete andare a visitare il Museo Ferrari di Maranello: una miscela di design e colore bello da vedere come un’opera d’arte, anche se non capite nulla di motori.
Lascia un commento