Bere latte non è sempre stata una consuetudine. Prima della metà del XIX secolo le difficoltà di conservazione rendeva più funzionale la sua trasformazione in formaggio. Quest’ultimo, a lungo considerato un cibo da poveri, venne riabilitato grazie a un paradosso, ancora vivo: la chiesa cattolica considera il formaggio un cibo “di magro”, che si può consumare nei giorni di astinenza dalla carne, ignorando che il formaggio è tutto fuorché magro, essendo fatto con il grasso del latte. Se siete a dieta è sconsigliata anche la mozzarella sia di latte vaccino, ma in particolare di bufala, il cui latte è molto più ricco di grassi rispetto a quello di vacca.
Prima di esser chiamata mozzarella era solo la mozza. La preparazione artigianale è rimasta identica nei secoli: si scalda il latte, la cagliata si separa dal siero, poi viene fatta cuocere nel siero stesso finché non fila (da cui la denominazione “formaggio a pasta filata”). Infine si mozza con le mani a intervalli regolari della dimensione desiderata.
La prima testimonianza della produzione di formaggi di bufala risale al XII secolo, quando i monaci di San Lorenzo di Capua distribuiscono pane e mozzarella come atto di benvenuto a un gruppo in visita. Chi produceva la mozzarella? Fino all’avvento dei primi caseifici è prodotta dai poverissimi bufalari all’interno delle bufalare, casupole dotate di camino, in fango e paglia prima e in muratura solo dal XV secolo, che servivano per la mungitura degli animali. Questi uomini conducevano una vita durissima, vivendo sempre con i bufali.
Nel Trecento si trovano tracce del consumo di latticini di bufalo a Napoli e Salerno, ma si tratta più che altro di provature (poi dette provole), sottoposte ad ulteriori lavorazioni che ne induriscono la crosta, rendendole più adatte ad essere trasportate con inferiore pericolo di deterioramento.
La mozza diventa ufficialmente mozzarella dal 1570: per la prima volta Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Pio V e mio conterraneo (squillino le trombe! Anche il Varesotto ha dato il suo contributo alla storia della gastronomia nazionale), annota sul suo ricettario, pubblicato a Venezia in quell’anno, “mozzarelle fresche romanesche”.
La famiglia romana dei Doria, nel Seicento, alleva oltre tremila bufale nella piana del Sele e in un paio di masserie inizia un progetto per centralizzare la lavorazione del latte, razionalizzando la produzione casearia e lo smercio dei prodotti. Si dovrà attendere fino alla metà del Settecento per assistere alla nascita del primo vero caseificio della storia della mozzarella. Saranno i Borbone, sovrani del regno delle Due Sicilie, che fanno costruire nei terreni della reggia di Carditello la Reale industria della Pagliara delle bufale di Carditello. Da questo momento in poi il consumo di mozzarella inizia a diffondersi grazie soprattutto all’avvento della ferrovia, quando da Eboli e Battipaglia partiranno treni carichi di mozzarelle verso tutta l’Italia.
Fino al 1942 la mozzarella era solo quella di bufala, quella di latte di vacca si chiamava fior di latte – la burrata è altro ancora: nella zona di Andria a inizio Novecento si recuperano gli avanzi di lavorazione del formaggio a pasta filata, mischiandoli con panna e avvolgendoli in un involucro di pasta filata – . Con una legge realizzata sulla base del pretesto che le restrizioni della guerra avevano imposto di allungare con latte di vacca il sempre più scarso latte di bufala, ci fu un colpo di mano. Non solo il fior di latte divenne mozzarella, ma divenne “la” mozzarella, mentre quella di bufala da quel momento deve indicare la dicitura per esteso.
Oggi ci sono allevamenti di bufale anche in altre regioni d’Italia e nel resto del mondo. Ma proprio per tutelare la sua origine nel 1981 nasce il Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana e nel 1996 viene conferita la Denominazione di Origine Protetta (che delimita l’area di produzione a tra Campania e Lazio, con un piccolo 1% in Puglia, provincia di Foggia), con percentuali di produzione così distribuite 58% della mozzarella Dop tra le province di Caserta e Napoli, il 34% a Salerno, il 7% nel basso Lazio e l’1% tra Foggia e Venafro.
Fonte: Alessandro Marzo Magno, Il genio del gusto, Garzanti, 2014
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